In gestazione

Tiziana Vaccaro

Prima

Sabato 7 marzo 2020. L’Aquila. Sei ore di viaggio in macchina, arrivo la sera prima, l’indomani ho spettacolo. La macchina mi stanca di più adesso, nelle mie condizioni. Sono le 21.30, io e Ale, il mio compagno, tecnico per l’occasione, vaghiamo dispersi tra le stradine dell’Aquila. Affascinati e intimoriti. Ci siamo infilati per sbaglio in un vicolo strettissimo. Due grossi cani ci abbaiano contro, ce l’hanno con noi, siamo stranieri. Noi chiusi in macchina, nel mezzo del nulla, non sappiamo che fare. Sono stanca, ho fame. Ci chiama l’organizzatrice che ci ospita: “dove siete?”. “Ci siamo persi e non sappiamo neanche darti il nome di una via perché siamo in un vicolo e non riusciamo a leggere, google maps gira a vuoto.” “OK, dai, fammi una foto di dove siete, magari scendi dalla macchina così capisco meglio.” – Scendi? Oddio, ma ci sono i cani! Chiedo al mio fidanzato – cioè non è che chiedo, urlo inferocita perché in fondo mi ha cacciata lui là dentro – di fare una manovra un po’ azzardata ma l’unica possibile per farci uscire dal buco in cui ci siamo infilati, anche perché che cazzo di foto scatto là dentro? Mica capisce dove siamo! Sì, sono un po’ nervosa, saranno gli ormoni, penso. Ho fame, sono stanca. Usciamo finalmente, arriviamo in una piazza un po’ più grande, abbiamo seminato i cani così posso scendere e scattare la foto. L’organizzatrice mi richiama subito, ha capito dove siamo e sta venendo a prenderci il marito. “Finalmente, grazie!” Poi, prima di riagganciare, mi dice che però c’è una brutta notizia. “Eh no perché sai abbiamo appena sentito che… hanno chiuso la Lombardia!” “Come hanno chiuso… ma in che senso?” “Che non si può entrare né uscire, sai per via del virus…” “Non si può entrare? Ma noi adesso come facciamo? Vabè sì ne parliamo dopo”. Dopo è un incubo di pensieri e paure. Sentiamo famiglia e amici, preoccupatissimi.
Decidiamo che l’unica cosa sensata da fare è partire l’indomani mattina presto e sperare che ci lascino entrare. “Ma noi non abbiamo la residenza e siamo in affitto in nero quindi neanche il domicilio, metti che ci fermano? – rifletto durante la cena. L’idea è quella di mostrare i nostri contratti di lavoro ma soprattutto… la locandina dello spettacolo! “Dai – mi dice il marito nonché direttore artistico, poco dopo cena. Ti porto a teatro così lo vedi e ti do la locandina”. L’ultimo, bellissimo, teatro che ho visto. Appena ha spento le luci mi è venuto da piangere. Buio. Sipario.
1300 km in 24 ore, una cena abruzzese, espressione di una disperata voglia di non fermarsi.
E invece stop, fermi tutti, fermo tutto. 8 marzo, si riparte, si torna a casa.
“Ma se andassimo a Catania?” – la butto lì al mio fidanzato prima di partire. “Se non ci fanno entrare a Milano che facciamo? Dobbiamo tornare per forza a Catania, è l’unico posto dove abbiamo un’altra casa. E allora a questo punto non è meglio che andiamo direttamente adesso a Catania?”. “Ma dici sul serio? E io come faccio con il lavoro? Mica posso lavorare a casa con i miei, no non si può fare!”. “Ah certo, perché il tuo problema in questo momento è come fai a continuare lo smart working con mamma che ti cucina la parmigiana e papà… vabè certo, tuo padre un po’ rompicoglioni lo è. No, effettivamente non si può fare, non possiamo tornare a Catania. E poi dai è Milano casa nostra, è a Milano che abbiamo tutte le nostre cose, i vestiti, tutto.”
Milano è deserta. Entriamo senza problemi. E ci chiudiamo in quella che diventerà la nostra casa rifugio. Casa prigione. È la festa della donna, auguri!

Dopo

Lunedì 9 marzo 2020. Inizia la nostra quarantena, 35 mq + 8 di terrazzino. Ale ed io. E la mia pancia che diventa sempre più grande. C’è un bambino dentro, una vita, di cui ho saputo l’esistenza qualche giorno prima che arrivasse il virus. Mio figlio e il virus si sono affacciati quasi contemporaneamente nella mia vita. La vita e la morte, insieme. Capita spesso in fondo che si sovrappongano, capita a me adesso. Aspettare una vita chiusa in casa mentre fuori si fa la conta dei morti sembra un ossimoro. Eppure… Chiusa in casa, nei primi giorni di quarantena, io conto. Conto i morti, conto le settimane di gravidanza, conto i contagi, conto le innumerevoli analisi che ho da fare, conto i mesi che dovrò stare senza lavorare. Conto i minuti, ore, giorni, settimane, mesi che passano, che mi separano dalla mia famiglia, dal mio teatro, da mio figlio che ancora non conosco. Quanti sono? Conto in maniera così ossessiva che quasi ho perso il conto. Sto male, leggo troppe cose che mi fanno soffrire in modo assurdo, troppe perdite, troppi addii che non sono addii. Sto bene, aspetto un bambino cazzo, certo che sto bene, come potrei dire il contrario? Sono a un metro da terra, sogno come sarà, quanto bello sarà quando crescerà, come crescerà. Andrà bene a scuola? Farà l’Università? Mentre sogno, soffro, rifletto tra il bene e il male, in sottofondo la voce di Ale che parla, parla, parla. In cucina, l’unica stanza vivibile, la nostra preziosa living room di 15 mq. Lui e il suo smart working che di “smart” non ha proprio nulla perché lavora più hard di prima. Almeno lui lavora. Conference call a tutte le ore del giorno, in Italia, Inghilterra, Giappone, India, Russia, il mondo intero. E mentre io mi prendo una laurea in service design e imparo un mestiere, che non si sa mai un domani col teatro come finisce, i suoi colleghi trovano comunque alcuni minuti per essere umani, e si raccontano ogni giorno “come va” nei loro paesi. E allora, mentre Divia dice che quando da Milano è tornata a casa sua in India è stata subito messa in quarantena e intanto dai centri urbani iniziava il grande esodo verso i villaggi rurali, e Chan racconta della sua festa di compleanno cinese organizzata in 20 stanze diverse di zoom e con circa 50 amici e Misu dipinge una Tokyo deserta e buia, io penso a questo bisogno smanioso di sentirsi italiani e uniti a tutti i costi, a suon di “andrà tutto bene!” e inno nazionale. Penso alla piccolezza del nostro inno suonato dal dj del quartiere che ci tiene alle 18.00 di ogni giorno a far diventare Via Carpi un villaggio turistico della Sardegna. Musiche rigorosamente italiane, sia chiaro, perché noi siamo italiani e “ce la faremo!”. Ma ce la faremo solo se… “stai a casa, figa! Cosa cazzo corri?”, “bravo, corri che ti danno un premio! La gente muore e tu corri!”, “E certo, adesso hanno tutti i cani!”, “Ma chi te lo dice che tuo figlio vuole uscire? Sei tu che vuoi uscire! Ma fallo giocare a casa, cazzo!”. La Paura… È trovare il nemico contro cui combattere, per non pensarci alla paura. Nausea. Ogni tanto mi viene la nausea. E non so mai se è dovuta al momento o a mio figlio. È strano essere in gravidanza in un periodo assurdo come questo. È strano per me perché, essendo la prima volta, non so mai se dare la colpa al virus o agli ormoni. Mi sento come in una bolla, o meglio sott’acqua, fluttuo, immersa nel mare delle mie sensazioni impazzite. Per fortuna che c’è Ale, che sarà il periodo, sarà che aspetto suo figlio, è sempre molto affettuoso, ai limiti del diabetico. Baci, parole dolci e abbracci a più non posso! Che quasi mi sento in colpa per chi la quarantena la sta vivendo da solo o per chi questo amore non può riceverlo più. Quasi mi sento in colpa per tutto questo amore che mi esplode dentro, per il sentirmi già così mamma e sempre così viva. In colpa per quelle madri che stanno per andarsene da sole, in un letto di ospedale, senza poter rivedere l’ultima volta i figli.
C’è da dire però che ogni tanto mi distraggo. E per questo ringrazio i miei vicini di casa che a suon di “amooo! adooorooo” e “ajaballà, kalamandalà” mi stanno regalando un’altra laurea in lingue e linguaggi contemporanei. Certo, forse bisognerebbe spiegar loro che la voce contiene diversi toni e non è sempre necessario utilizzare quelli più alti soprattutto quando stai in quarantena da un mese e vivi appiccicato ad altre persone che, cazzo, a un certo punto, magari non ce la fanno più a sentirti, no?! E allora per sfuggire ai vicini rumorosi andiamo alla ricerca di nuovi luoghi. Rifugi.
Nel nostro appartamento di 38 mq + terrazzino di 8, strano ma vero, abbiamo scoperto nuovi interessanti luoghi da abitare. Io per esempio, anche per fuggire dalle numerose call del mio fidanzato, ormai faccio un sacco di cose a letto, il mio unico, alternativo, spazio tuttofare. Lavoro, mangio, parlo al telefono, e via così. Ale per esempio a volte sparisce in bagno per un tempo infinito. Un bagno di 2 mq. Una cabina. Che mi chiedo e gli chiedo cosa ci farà mai se non le solite cose! “Ma stai bene Ale?”. “Sì perché?” Mi guarda allibito come se gli avessi fatto la domanda da un milione di dollari. “No perché mi sembra strano che passi tutto questo tempo in bagno… tutto a posto, no?” Silenzio. Dopo qualche giorno mi rivela che lui in bagno ci va per rifugiarsi, per riflettere. Entra, si siede sul water, luci spente e sta. Ogni tanto sento pure il rumore del phon, dice che lo rilassa… white noises, rumori bianchi. Io invece, quando c’è il sole, mi rifugio sul muretto del terrazzino dalle 14.00 in poi, orario in cui solitamente, ormai ogni giorno, do appuntamento telefonico a un’amica, meglio in videochiamata così ci vediamo, mi mancano tanto le mie amiche, anche se in effetti ci vedevamo poco anche prima. E se nessuna risponde o sono in modalità silenzio, più semplicemente prendo un libro o le cuffie e viaggio, da sola. Ogni tanto però sento delle presenze… Mi volto e lo vedo, il ragazzo che sta proprio di fronte a noi. Si affaccia spesso per fumare, lo guardo e lui, oh non mi guarda mai. Mi fa antipatia… “ma scusa come fai a non guardarmi? E dai guardiamoci, che so, salutiamoci, siamo tutti sulla stessa barca, l’ha detto pure il papa! Navighiamo insieme! Cazzo giochi con la pallina sul muro se ci sono io qua affacciata? Ed esci no, asociale di merda! Esci! E poi dicono che dopo tutto questo saremo migliori!
Domenica 12 aprile 2020. Milano, casa. È Pasqua. “Tanti auguri! #iorestoacasa, #andràtuttobene”.