Cara coinquilina

Marica De Pascali

Sono settimane ormai che entrando in cucina dopo essermi svegliata trovo ai lati del tavolo due tovagliette, una rossa e l’altra marroncina, con sopra le nostre tazze per la colazione, un bicchiere per la spremuta e un cucchiaio adagiato su un tovagliolo di carta. Quando apro la porta della cucina ci sei tu davanti ai fornelli ad attendere che il caffè sia pronto per versarlo nelle tazze di entrambe, mi guardi e con gli occhi ancora un po’ assonnati mi dici: “Buongiorno!”. Io impiego un po’ di tempo prima di risponderti perché ogni mattina rimango sorpresa dal fatto che tu sia lì e che ti sia preoccupata di farmi trovare il caffè caldo e prima di dire “Buongiorno” a mia volta mi chiedo: “ma perché lo fa?”.

Sono quattro anni che viviamo sotto lo stesso tetto, che condividiamo la stessa stanza, dormendo accanto in due lettini separati eppure per tutto questo tempo forse non ti ho mai vista, né vissuta veramente. Se avessi potuto scegliere sicuramente non avrei scelto te come compagna di quarantena ma ci siamo ritrovate coinquiline anche in questa fase di simil prigione. In un momento in cui tutto tace, mentre Milano è assorbita in un silenzio assordante noi dentro le nostre mura domestiche per la prima volta parliamo guardandoci negli occhi. Il silenzio del fuori si contrappone al suono del dentro, un suono di racconti che abbiamo deciso di condividere, di canzoni ascoltate insieme, di battute di attori di un film che guardiamo sedute rannicchiate sulle sedie della cucina. Ascolto per la prima volta quello che hai da dirmi, i racconti sulla tua Sardegna, sulla tua mamma che non c’è più e solo ora ne percepisco davvero il vuoto che ha lasciato in te. Non ho mai saputo ascoltarti prima d’ora, non ne ho mai trovato il tempo, sempre troppo indaffarata nelle mie corse giornaliere, nei libri da leggere, negli esami da preparare. Ma ora, in un ripetersi di giorni in cui ogni tipo di relazione si consuma dietro lo schermo del cellulare o del computer, tu sei l’unica superficie stabile in una sorta di eterno giro sulle montagne russe. Tutto è sottosopra e mi sembra di andare su per poi tornare giù e poi ancora su e subito giù tramite un movimento che mi provoca la nausea ma in tutto questo hai scelto di non lasciarmi sola. Ci sei se maledico il nuovo programma a cui sono relegata per le lezioni, hai pazienza con la mia imperizia tecnologica che a volte ti fa sorridere un po’, riponi con ordine le mie cose se le lascio in giro per casa disseminando indizi del mio passaggio, mi porti da mangiare in stanza pur di non lasciarmi a digiuno quando capisci che il mio umore è a terra e non ho voglia di cucinare, rispetti le mie lacrime soffocate sotto il piumone, non fai domande se ti rendi conto che non voglio parlare. Il nostro stare in casa è cambiato, c’è più rispetto dei ritmi dell’altra, più attenzione alle espressioni del volto che spesso dicono di più delle parole. Le urla dei vicini ci fanno accostare entrambe al muro che separa la nostra casa dalla loro a volte spaventate dai loro strilli altre volte divertite dalle canzoni dei cartoni animati che cantano a squarciagola e noi con loro dall’altra parte del muro per instaurare una sorta di comunione peculiare. Io a volte ricerco i miei spazi di solitudine in casa ma capisco che non vuoi che ti lasci da sola. Ti vedo in cerca di una qualunque scusa pur di stare nella stessa stanza e anche se all’inizio mi infastidisco un po’ poi ti faccio spazio sul tavolo della cucina per studiare insieme, ciascuna con gli occhi sui propri libri o sul proprio computer ma almeno in un silenzio condiviso che in questo modo fa meno paura. È proprio la cucina il luogo in cui trascorriamo più tempo sia insieme che da sole, lì condividiamo i pasti, lì chiacchieriamo, lì ci raccontiamo cosa ci angoscia, lì ci affacciamo alla finestra per sentire l’aria sulla pelle o per guardare gli stadi della luna crescente o calante. È il luogo che abbiamo prediletto in un tacito accordo forse perché è il luogo che sentiamo come maggiormente creatore di unioni quasi familiari, il luogo adatto per imparare a essere una la famiglia dell’altra, per far incontrare due esistenze diverse che stanno apprendendo le vere dinamiche del vivere insieme. Le giornate si susseguono quasi fuggendomi via dalle mani perché non so regolare il tempo che mi sembra sempre terribilmente sprecato in uno stare ferma impostomi da fuori ma ci sono dei nostri piccoli rituali a cui sto mi affezionando: il tè bevuto insieme alle cinque del pomeriggio, le pulizie di casa fatte mentre balliamo o cantiamo come se fossimo in discoteca o a un concerto, le risate sulle nostre rispettive nonne che ci chiamano per dirci che hanno recitato per noi innumerevoli rosari durante la giornata, il metterci a dormire insieme spegnendo la lucina della lampada e augurandoci la buonanotte.

È un periodo strano questo tempo del coronavirus in cui sento di aver perso molte cose che mi mancano terribilmente ma di averne ritrovate e riscoperte altre che prima erano invisibili ai miei occhi poco attenti a ciò che era così vicino da non essere proprio percepito. In questo momento in cui non è possibile sporgere troppo lo sguardo verso l’esterno, in cui gli occhi sono costretti solo all’interno delle proprie cose o dei propri animi forse ci siamo presentate di nuovo per la prima volta:

«Piacere io sono Marica»,

«Ciao io sono Martina».

Forse è proprio da questo che devo ricominciare.