Ci sono scale e…scale

Roberta Villa

Il posto che frequento di più in questi giorni (ad oggi 15 aprile sono 38) è la scala di casa mia. La scala a chiocciola. La mia casa è stretta e alta su tre livelli. Cucina ingresso, soggiorno dove dormo con bagno, soppalco dove lavoro. Due sole porte esistenti: quella d’ingresso e quella del bagno. Vado su e giù, su e giù, arrabbiata, a fare cose, inventarmi cose da fare. Mi divido la giornata in rigorose strutture tra lavoro, incombenze domestiche e lavori straordinari, pulisco (ma solo il necessario), dipingo, faccio lavori al pc e rispondo a videochiamate, chiamate semplici, skype, zoom, meet e via discorrendo. E vado su e giù su e giù. Sempre con rabbia. La scala a chiocciola è di tipo magazzino, semplice, ma rossa…o meglio “color sangue rappreso” come direbbe mio fratello architetto che sprizza positività. Su e giù. Non sto mai ferma perché devo fare. Io che di solito vivo la casa anche come momento di relax soprattutto in quei giorni in cui non lavoro, adesso no. Per non soccombere, sprofondare, affogare, continuo a inventarmi cose. Se la vita lavorativa è rigorosa, la vita privata è anarchica. Di solito. Adesso no. Non posso più permettermelo. Pensieri. Pensieri che continuano a rincorrermi su e giù dalle scale. Mi inseguono e mi precedono. Quando sarà tutto finito avrò bisogno di una vacanza perché sarò sfinita, come in questi giorni che arrivo a sera distrutta. Quando sarà tutto finito rivoglio la mia anarchia, e il mio riposo fancazzista. Rivoglio tutto. Le relazioni, la creatività, la fatica. Sì rivoglio anche la fatica. Tutto. Tutto. Perchè la MIA normalità non era il problema. MIA certo. Ma quanto sei autocentrata Roberta? Hai dimenticato il telefono sul soppalco. Risali che deve chiamare Valentina e a Valentina devi rispondere perché ti deve dire il risultato del tampone. E chiacchierarci la solita ora. Valentina mi tiene su, ci sentiamo tutti i giorni, mi accetta come sono, accoglie il folletto pixie e l’adolescente incazzata che sono. Non mi dice che sono irresponsabile. Il telefono non è in soppalco..allora ridiscendi, è giù. Con Valentina posso parlare dello stato di polizia che siamo diventati, posso mandare affanculo gli arcobaleni del cazzo e l’andrà tutto bene. Valentina accoglie. È l’unica che riesce ad accettare i miei discorsi sulle opportunità di sto cazzo che questa nuova vita (se così si può chiamare) dovrebbe regalarci. Ma il problema, la vera malattia, non è il virus se avevamo bisogno di una epidemia per capire questo. “Vale, ma quanto siamo malati?” Le dico. Ma malati veri. Altro che virus. Su e giù su e giù. Devo ricordarmi l’appuntamento con i ragazzi del gruppo del liceo di Magenta, devo ricordarmi che devo rivedere i loro sguardi vuoti e i sorrisi stentati e la non voglia di rispondere. Stavolta non mi devo bloccare. Devo prendere in mano la situazione niente panico. Effettivamente queste tecnologie non sono poi così finte se mi emoziono. Ma come si fa a fare il mio lavoro in questo modo odioso? Su e giù. Che rabbia. Roberta perché non sei come tutti gli altri? Perchè questa vicenda l’hai presa proprio male, non c’è che dire. Hai persino litigato con tuo fratello subito all’inizio quando ti diceva di non andare da mamma e papà perché poteva essere pericoloso “Ma che cazzo dici? Non me ne frega un cazzo del virus non capisci? A me frega solo di sapere se corro il rischio di essere bloccata da una pattuglia perché gli sputo in faccia!”, gli dico. “Va bene sister, mi ha sempre chiamato così fin da piccolo, vai, però se ti fermano digliene quattro a distanza non sputargli in faccia perché in questo periodo è tentato omicidio”. Mi risponde, con inspiegabile saggezza da fratello minore. Mi sta chiamando mentre vado su e giù. Non rispondo. Perchè poi mi passa Francesca, sua figlia. 3 anni e mezzo, 12 chili di peso, e rabbia infinita nel corpo. Ha una domanda fissa in questi giorni. “Zia perché stai lì da sola? Vengo io”. Non la voglio sentire.

Adesso taglio l’edera. Esco, basta scala. Esco in cortile. Ho messo un grosso cespuglio di edera quando sono arrivata 17 anni fa. E una panchina di legno. Ho detto a tutti che era a disposizione. Carlo ha visto la mia panchina e ne ha costruite due. E adesso in cortile (piccolo con 6 famiglie), ci si siede, si chiacchiera, si prende il sole. A distanza. In cortile mi fermo. Mi calmo. Resto. Sto. Carlo mi porta i fiori. Li ha rubati nei suoi giri. Carlo è un omone di più di 70 anni, con il parkinson, il diabete e non so più cos’altro. Quando non gli hanno rinnovato la patente ha comprato una bici elettrica. L’ha corredata di sacche, ceste, elastici con i ganci con cui aggancia i secchi e quant’altro. Non contento si è pure costruito un carrellino in ferro con tre ruote che aggancia alla bici. La sua vita in questi giorni non è cambiata di una virgola. Continua ad andare. Prende la bici e torna con ogni tipo di mercanzia. A seconda delle stagioni: erbe di campo, cime di rapa, funghi, lumache, pesci, rane….mi offre sempre tutto, Carlo. Io grata e ingenua gli chiedo dove le ha trovate e lui dice vago “Erano lì, erano tante….cosa facevo le lasciavo lì?”. Spero che non lo becchino mai. Carlo è stato un saldatore. E salda tutto. Ma non solo. Costruisce ogni tipo di marchingegno. Non sta mai fermo. Mi accorgo che mentre sto radunando le foglie di edera tagliata, guarda immobile con cupidigia le mie foglie. Ormai lo conosco “Tranquillo Carlo, faccio io”. Non resiste, entra in garage e se ne esce con due marchingegni che ha costruito: una scopa fatta di rami con cui si possono scopare i sassi e un attrezzo per raccogliere le foglie senza chinarsi a terra. Dice che se voglio li fa anche per me. Carlo ha saldato le travi del mio soppalco. Quelle che poi ho dipinto di azzurro. Quella in particolare che sostiene il tetto e su cui ho fantasticato di recente con esagerato romanticismo di appendermi nei giorni no in cui il dolore mi travolgeva (e tra parentesi il fratello positivo mi ha consigliato di munirmi di prolunga elettrica visto che non avevo la corda robusta). Sì Carlo le ha saldate quelle travi di ferro. E’ venuta su in modo anomalo la mia casa, ricavata da un vecchio fienile e costruita da una sedicente impresa di Erice in provincia di Trapani. I miei vicini mi hanno raccontato che lavoravano di brutto anche di notte con i fari. Per il fratellino architetto è stata una croce la costruzione della casa, niente supporti di sicurezza, palesi violazioni di tutto…alla fine ha commentato lugubre che sicuramente le mie fondamenta sono ripiene di cadaveri. Carlo mi ha detto che erano brave persone. Gran lavoratori. Anche Carlo è un gran lavoratore. Soprattutto la domenica mattina presto quando comincia a martellare e trapanare e inevitabilmente mi sveglio con un filo di malumore. Apro le finestre. Lui esce dal garage “Scusa ti ho svegliato?” “Tranquillo Carlo tanto prima o poi dovevo svegliarmi” “Ah va bene allora buon giorno per tutto il giorno”. Carlo sembra un personaggio inventato. Ha una rudezza, una semplicità inaspettate. E una poesia incredibile e inconsapevole. “Che bel sorriso che hai sempre Roberta” “Grazie Carlo” “E d’altra parte la vita bisogna prenderla così se no è finita”. E mi racconta la sua di vita. Del suo primo matrimonio. Con una ragazza che è morta dopo un anno dando alla luce il figlio. Aveva vent’anni. Poi ha conosciuto la moglie attuale, Giovina, è venuto qui, hanno avuto un’altra figlia. “E va bene così Roberta cosa ci vuoi fare. Io a volte ci penso a lei che è morta, ma cosa dobbiamo fare? A un certo punto alle persone che se ne vanno bisogna dargli le ali, per farle volare via”. Mi è mancato il respiro. Carlo è così. Ti spiazza. Oggi mi è comparso davanti con una scaletta di legno. A pioli. Ovviamente costruita da lui. Con dei piedini di metallo che hanno gli spuntoni che conficcarla a terra. Me la mostra orgoglioso. “Così posso prendere i funghi” “Ma Carlo dove?” “Sugli alberi. I pioppi hanno i funghi in alto”. Ecco in questa cosiddetta quarantena ho scoperto che i funghi crescono anche sugli alberi! Me lo guardo che se ne va con la scaletta fissata alla bici. Non gli dico di stare attento che non si faccia male perché è meglio lasciar perdere gli ospedali in questi tempi…lo lascio andare e sorrido pensando ai carabinieri al posto di blocco che si vedono arrivare questo omone su una bici improbabile con secchi e scaletta. Come le altre volte non lo fermeranno e lui continuerà la sua vita di sempre. Perchè Carlo non va contro il sistema per protestare. Lui è così punto e basta.

Fumo una sigaretta e mi rilasso e penso a quanto sono meravigliose le persone. E’ molto meglio farmi inondare dalle persone piuttosto che da me stessa. E mi fermo. E sto. E non ho voglia di fare nulla. (Tra parentesi le nuove tecnologie continuano a darmi emozioni inaspettate, ieri sera ho avuto una festa di compleanno a sorpresa con 30 persone, che non sarei mai riuscita a radunare in unico spazio tempo).