Pregustavo la quarantena

Cristiana Borella

Dopo un lungo periodo di isolamento, durato più d’un mese, mi godrò anch’io la quarantena!
Da notizia sconcertante, il fantomatico virus si è intrufolato in casa mia e c’è rimasto per 4 settimane per infettare il mio compagno e spaventarci per bene, convinti al principio che si trattasse di un’influenza stagionale. Siamo stati molto fortunati: il mio compagno è guarito e né io né mio figlio siamo stati contagiati; anzi sopravvive in me la sensazione di essere scampata a un grave pericolo, una slavina che ci avrebbe travolti e sotterrati tutti, vivi o morti: non ho dovuto comporre il 112, il funesto numerino che nella migliore delle ipotesi avrebbe spedito il mio compagno diritto all’ospedale, in corsia probabilmente, sicuramente solo e nel novero dei malati gravi attaccati alla bombola di ossigeno.
Ammalarsi era un lusso che né io né mio figlio potevamo permetterci, non ce l’avremmo fatta ad assisterci l’un l’altro e la prova era sotto ai nostri occhi: il mio compagno, curato e a letto da parecchi giorni, anziché guarire si indeboliva progressivamente. “Cos’è ‘sta corrente d’aria? Asciugati i capelli! Chiudi la finestra! Sembra che tu lo faccia apposta per ammalarti!”, ho i nervi a fior di pelle e richiamo l’adolescente alla responsabilità tanto più necessaria nell’emergenza, ma peggioro le cose: lui va a rinchiudersi nella sua stanza e riappare solo all’ora dei pasti, servito e riverito come se gli fosse dovuto, come se l’epidemia fosse tutta colpa mia!
L’isolamento, che solo qualche settimana fa era motivo di litigi, adesso non solo è legittimato dalla circostanza, ma sembra la soluzione migliore! Non gli manca l’aria, non gli manca il sole, non gli mancano gli amici né i compagni di scuola: rintanato lui sta bene.
Le condizioni del padre lo atterriscono; non sa come comportarsi e oscilla tra fingere che il malato non esista e sparire nel suo limbo facendo buon viso alla cattiva sorte per tener botta ai suoi impegni scolastici. Isolandosi, a modo suo, cerca di scrollarsi di dosso una vicenda surreale che da notizia pubblica è diventata una questione familiare che si rispecchia nei guanti e nella mascherina che indossiamo anche in casa, nell’apnea spontanea di quando passiamo accanto alla stanza dell’ammalato.

Mi pregustavo una quarantena di quiete, una sorta di ritiro spirituale e invece la malattia e la tecnologia hanno preso il sopravvento; quest’ultima poi ha vinto la partita nell’espressione trionfante di mio figlio che può archiviare come storia passata le discussioni sull’uso smodato dei dispositivi diventati strumenti indispensabili per vivere. Sanificare, disinfettare, sterilizzare e accudire, sono le mie occupazioni giornaliere e nella speranza di insufflare un po’ di energie al mio compagno che è sempre più debole e inappetente, cucino di tutto e a qualunque ora del giorno e della notte; solo più tardi mi accorgerò di quanto l’insieme di tutte queste attività di cura, mi hanno spossato.

Penso all’eventualità di dover affrontare la morte, la mia per contagio e quella del mio compagno…ma a mio figlio assegno il ruolo del sopravvissuto, di più non oso! Ciascuno di noi immagina scenari apocalittici persino il mio compagno che si sveglia in piena notte di soprassalto al pensiero che nostro figlio possa ammalarsi e non avere le risorse per contrastare un morbo così debilitante.
Racconto di queste preoccupazioni ad un’amica e del tutto inaspettatamente ricevo la grazia che tutt’a un tratto parrebbe dispensarci dal Covid! Grazie alle sue parole, io e mio figlio otteniamo l’immunità, una protezione speciale, un super potere che ci rende invulnerabili!: “Io sono Supermam! Massimo rispetto, capito?”, la butto sul ridere e lo prendo un po’ in giro. Ma l’amica mica se le inventa: è genetista e con un’allegra risata fa piazza pulita del timore di un contagio: “Ceppi così diversi se ne fanno un baffo di questo virus!”. Sfarfallano nella mia memoria le paginette del capitolo 4, pagina 27, del libro di chimica organica, studiate tanti anni fa! Sarò anche super, ma che smemorata! A quella sua risata io m’aggrappo mani e piedi come ad un salvagente e nell’espressione soddisfatta di mio figlio ritrovo la fierezza per le sue origini che nel momento del bisogno vengono provvidenzialmente in suo aiuto come nelle favole più belle. L’amica mi parla di cromosomi e genotipi, di popolazioni autogame e allogane, di omozigosi ed eterozigosi e di random mating, di linking drag e io non ci capisco un’acca ma me ne infischio perché le sue parole sono catartiche, salvifiche!
La conversione è in atto! Io credo. Beata credo nella rivelazione, che non è una certezza ovviamente, ma certo quest’immunità mi dà la forza di convivere col caro infetto con minor preoccupazione.

I miei famigliari stanno tutti bene; mio padre, ultraottantenne, ha schivato il contagio per un soffio avendo trascorso un intero pomeriggio con il genero appena “incoronato”. L’epidemia non lo preoccupa più di tanto, ma la reclusione gli è insopportabile e la vive come un castigo, una maledizione che si è scagliata sul finale della sua esistenza. Ci sentiamo tutti i giorni al telefono, ma di me non chiede niente: vuole solo sapere come sta il mio compagno, se si riprende… Di me non chiede niente perché lo irrita sapere che sono stanca, che sono anche un po’ stufa di barcamenarmi tra l’essere infermiera, madre e cuoca. Piuttosto chiede di mio figlio… pare che solo i maschi meritino la sua attenzione, come se il destino del genere umano fosse affidato a loro!
Di paradosso in paradosso, che pazienza!

Senza quasi accorgermene, la vita riprende: alterno l’assistenza all’infermo al sostegno alle famiglie della zona del Trotter. Fioccano telefonate che mi sollecitano e, nel giro di poco tempo, rientro in contatto col mio gruppo che diventa una base di raccolta dati per l’emergenza: il Comune di Milano, attraverso un bando di contrasto alla povertà, ci contatta, considerandoci soggetti affidabili sul territorio, allo scopo di intercettare famiglie in stato di necessità. E le famiglie, segnalate dalle mamme del mio gruppo, sono tante, trenta, quaranta…
Pochi sanno che in casa mia si aggira il Covid eppure è proprio questo virus ad avvicinarmi come non mai a tante famiglie che posso supportare con un rapido giro di messaggi what’s up! Ricevo messaggi urgenti, angosciati, preziosi, commuoventi, poemi che appenderei al muro. Alcuni sono capolavori lessicali e sintattici!
“Vebbene cugi o no dimime” “Certo che va bene così, grazie e buona giornata!”, digito e invio immediatamente. Da traduttrice “a riposo” sguazzo in quest’italiano improbabile e godo a decodificare messaggi criptati che ritrasmessi si trasformano in uova, pane e latte! “Come usire fori sensa folio perke sempere polizia. Io paura tanto.” “Non devi avere paura. Ti lascio l’autocertificazione (il foglio) nella panetteria di via…” “Gerazzie millie…Tanto tantisimo gerazzie. Io contento toropo contento nata lei”; mi vien da piangere! Parole che curano e che scacciano una volta per tutte i presagi di morte che incupivano le mie giornate.
Le mamme del mio gruppo sono spaventate: non escono neppure per fare la spesa o per far prendere un po’ d’aria ai bambini in quei 200 metri consentiti. Coronavirus o “Corunavira” come lo chiamano, è lo spettro che le inchioda a casa da due mesi.

Due cose mi colpiscono in questa quarantena: l’aver appreso negli anni quest’italiano meticciato che adesso mi torna molto utile e la fredda bidimensionalità delle videochiamate. Non si tratta solo dell’assenza di temperatura e delle vibrazioni: manca la profondità, la terza dimensione: ripenso alla citazione di Pauli nell’epigrafe del libro “Voci del verbo andare”: “Dio ha creato il volume, il diavolo la superficie”. Costretti a stare in superficie, ci toccherà vigilare, ricordarci che le cose possiedono di uno spessore, che sotto la maschera batte un cuore.

Tra integratori e paracetamolo il mio compagno è guarito; passati altri quattordici giorni siamo usciti dall’isolamento e possiamo dirci “fuori pericolo”, noi forse davvero immuni, lui, risanato.
Non ho voglia né le energie per sistemare cantine piuttosto che imbiancare e nemmeno per tenermi in forma con la ginnastica mattutina che mi farebbe tanto bene. Mi accorgo che la mole di lavoro per via telematica è raddoppiata ed è spesso snervante e faticosa. Preferisco occuparmi delle persone perciò stampo autocertificazioni e le lascio ai commercianti del quartiere, invio bollettini di lavoro anche se adesso trovare un impiego è un’impresa! Inoltro richieste per pacchi alimentari, smentisco le fake news che circolano sulla chat, invio consigli della pediatra, aiuto le mamme a compilare il modulo per ottenere il bonus alimentare e, di comune accordo, invio fiabe, indovinelli e filastrocche con cui spero di allietare i bimbi e insufflare loro un po’ di sonno e, non ultimo, segnalo gli alunni esclusi dalle lezioni online perché privi di tablet e connessione Internet, alunni che non vedono la maestra da più di un mese. Sarà dura, ma ci provo. A colpi di semplificazione demolisco un lessico tecnico-informatico incomprensibile e spiego cos’è una piattaforma e come fare il download, come scaricare l’icona che apparirà sul desktop, come creare un account e attivare la connessione o in alternativa attivare l’Hotspot”, come rap potrebbe persino funzionare, ma non uno di questi vocaboli è noto alla bambina di 8 anni che vuole solo farsi vedere dai compagni e dalla maestra di scuola! Anche la videochiamata mi stanca.

E non mi sono goduta neanche un giorno di quarantena, quel tempo sospeso dell’assenza dove poter staccare la spina. Sì, ma c’è quarantena e quarantena e penso ai ricchi milanesi sdraiati nelle terrazze a prendere il sole e alle case fatiscenti di via Arquà, in un monolocale. Le mamme che conosco hanno tutto come minimo tre figli e un modello ISEE da far accapponare la pelle! Che coraggio ci vuole per emigrare?

Ci sono milanesi
che sembrano africani, cingalesi, cinesi,
ma sono nati alla Macedonio Melloni…
Ci sono milanesi
che hanno il cuore conteso fra due patrie,
ma come dargli retta?
Una patria che esilia, l’altra che infetta.
Ci sono milanesi che potrebbero
sfuggire al virus letale,
che in Lombardia fa strage,
eppure non pensano di rimpatriare.
Bah, non ho la testa per scrivere, sono esaurita: lasciamo stare!

Mi pregustavo la quarantena come se mi fosse concesso un periodo di letargo e invece… invece cucino come prima, sparecchio e spazzo e, affinché ciascuno ne abbia una di ricambio, cucio mascherine…Scopa, paletta, ago e ferro da stiro sono indicatori del mio vivere, mi giudicano senza appello; alla sbarra mi chiedo:“Chi sono?”. Se davvero sono ciò di cui mi occupo è un bel guaio! E non mi riferisco ai lavori domestici, non soltanto: mi occupo di socialità che in poche battute si traduce in baci, abbracci; creo assembramenti in un centro multiculturale; partecipo ad un bando denominato “Alleanze dei corpi”, frequento un seminario che si chiama “Dialogo fra i corpi”, partecipo al Teatro degli Incontri”! Tutto proibito! E neanche un giorno di quarantena!
Ho pensato spesso al Teatro degli incontri. Ho cercato di mettere mano ai testi di una mappa che mi emoziona forse perché, una ad una le ho interiorizzate tutte; sento vibrare le voci del verbo andare come tuoni, echi lontani che risuonano. Sfioro la mappa, la accarezzo con gli occhi, poi mi appunto qualcosa su un quadernetto: “La bocca fa un mucchio di cose: mastica, respira, canta, russa, ride, si commuove e articola parole, inafferrabili adesso con questa museruola!”.

E non mi sono goduta neanche un giorno di ‘sta quarantena… eppure sto bene e, tutto sommato, mi sento serena!