Pensieri

Ivana Di Salvo

Vorrei concentrarmi su altro, davvero perdermi a capofitto in qualcos’altro, a fondo. Sempre, non solo adesso. E invece no, mi assale al mattino, subito appena apro le palpebre, appena distinguo la luce che attraversa la fessura sotto la porta da quella che dai buchini della serranda, in quel momento lì già mi assale. L’ansia di fare, di produrre, di finire la giornata e dire ho fatto. Ho fatto. L’ansia di poter dire ho scritto email, partecipato a bandi, pensato progetti, fatto, chiamato, parlato con gente, corso più di 6km, vorrei arrivare a 20km, visto il film, letto quel libro, ascoltato il podcast di tedesco e quello di swahili. Minchia. E che è? Ma davvero devo produrre ogni giorno? Quale maledizione mi hanno messo addosso? Non è solo un problema di questi giorni, è una maledizione di sempre. Non ho un algoritmo che controlla le mie gambe, che avvisa il mio capo che ho corso poco e non ho fatto tutte le consegne nel tempo prestabilito, come i ragazzi di Ubereats. Anzi adesso che sono il capo di me stessa, minchia me la metto io da sola l’ansia del fare addosso? Porca miseriaccia.

Rimaniamo o partiamo, rimaniamo o partiamo, rimaniamo o partiamo. Partiamo. La notte prima non dormiamo, con il tran tran del partiamo/restiamo fisso nella testa. La notte in cui partiamo, non dormiamo, il ritmo del singeli è frenetico davanti casa nostra, impossibile chiudere occhio. 300 battiti al minuto non si possono fermare con una sola imprecazione. Accettiamo un passaggio in auto alle 3 del mattino, è ancora buio, e ci perdiamo la valle del Kilombero. Gli aironi sono ancora silenziosi nei loro nidi e la radio finalmente è spenta. Tutto tace. è così buio che riusciamo solo a salutare la strada principale che esce da Ifakara e si fionda nella shamba. Mi dico, forse meglio così, quando torneremo, l’entrata nella valle, la foresta verdissima, ci colpirà di nuovo, forse come la prossima volta, dritto nel cuore. Tanto a Giugno torniamo. L’auto puzza di disinfettante, prende tutte le scaffe, tutte ma proprio tutte, uno sballonzolio continuo per tre ore. Impossibile chiudere occhio, impossibile mancare le scaffe. Il fiume Kilombero impazza sotto il ponte, l’acqua è altissima, piena di fango. È incazzato il Kilombero, come sempre sotto quel ponte, tanto che una volta in settimana, almeno, lo spacca il ponte e si trascina i pietroni che lo reggono. Scopriamo che ci potrebbe essere un’altra strada, su per le montagne, passando per Iringa, si allunga il viaggio di un paio d’ore, si sale fino a 1500 metri e poi si scende. Qualche km più in basso invece l’acqua del Kilombero scorre lentamente e la terra accetta docilmente l’acqua che esonda nei campi, inonda le risaie ed i campi, si porta con se tutto il raccolto. È l’alba, la luce illumina uno stormo di avvoltoi su un baobab, tre elefanti passano nella savana nella luce arancione, una zebra trotterella incurante dell’alba, della luce, del nostro passaggio. Finalmente c’è l’asfalto per le prossime otto ore e la luce sale sale sale ed i colori si fanno così forti, è impossibile dormire.

Facciamo le prove generali di un collasso del sistema e del collasso del nostro pianeta, facciamo le prove generali per le generazioni future. Prima di noi le hanno già fatte le prove generali per guerre, carestie, epidemie ed anche per pandemie. Non sono servite a niente queste prove generali. Come se fosse la prima volta. Il “salto di specie”, questo spillover, ci ha già dato le epidemie di Ebola e HIV/AIDS negli anni ’80 sostenute dai virus degli animali selvatici, l’influenza aviaria A/H5N1 nel 2005, l’influenza suina A/H1N1 nel 2009 e le varie epidemie di coronavirus con salti di specie da pipistrelli e cammelli SARS nel 2002-03 e MERS 2012. La MERS ben più potente mi ha lasciato il ricordo di metà reparto di malatte infettive di Marsiglia chiuso per mettere in isolamento i pazienti sospetti con febbre provenienti dal pellegrinaggio da la Mecca, mi ha lasciato il ricordo della stanza tappezzata di tappeti medio-orientali e grandi caffettiere di caffé.

E di nuovo adesso, come se fosse la prima volta. Fino a quando il virus è nel paese dell’altro continente, o nel paese confinante, poi arriva da noi e la strizza sale. E bum, a buttare dentro tutti i soldi della ricerca, a monopolizzare l’attenzione globale su un problema che è soprattutto dei bianchi e dei paesi ricchi del mondo. Invece di stringerci insieme, la vera soluzione è il distanziamento sociale. Così non ci sono più scuse per l’accollo del vicino del quinto piano, che non si sa fare una vita, per i miei che mi stanno con il fiato sul collo. Pompiamo il vuoto con precarietà. Precarietà significa niente struttura nella giornata, nella settimana, nel mese, niente stipendio, niente reddito, niente dichiarazione dei redditi, niente commercialista, che poi in realtà mi sono anche affezionata al commercialista, è l’unico che sa veramente tutto quello che faccio, è un po’ il mio confessore. Collasso del sistema democratico. Come partecipiamo, questa è una domanda che ci siamo fatti anche prima. Adesso non partecipiamo più, ci sottraiamo allo sguardo altrui, al corpo altrui, temiamo, abbiamo infiltrato il senso di colpa, senso di colpa in una passeggiata nel bosco, in un incontro a distanza a 2-4-6-12 metri, dall’altro lato del fiume, uno sul ponte ed uno sulla riva. O discutiamo di come si potrebbe fare, invece che fare e basta.

Non appena il lockdown s’allenta, appena possiamo prendere il treno, il bus, l’aereo, il deltaplano, non appena potremmo riversarci nelle strade a fiotti, dimenticheremo tutto. Come abbiamo sempre dimenticato e ci riprenderemo la nostra vita, mai come prima sarà dimenticato subito, ma chissene potremo vivere in libertà. Cos’è la libertà? Per me la libertà in questi giorni è un tandem di lingua italiano-tedesco con la figlia dei vicini, Laila, che ha 12 anni, un ginocchio ammaccato, le stampelle e tanta voglia di parlare, di farmi vedere i nascondigli nel parcheggio, nelle cantine, nella lavanderia sotterranea. La libertà è arrivare nel suo giardino e vedere tutti i bimbi, fascia d’età 3-6 anni, che si affacciano dai balconi ed iniziano a salutare. Poi lentamente scendono le scale e vengono nel cortile interno. Di solito i bimbi di questa fascia d’età non li vedo e non li frequento, quasi non esistono. Adesso invece della birra, del caffè, della biblioteca, del lavoro saltato, mi ritrovo di più con la fascia d’età 3-6 anni.

In Italia abbiamo raggiunto il picco, adesso scendiamo sempre lentamente. E poi aspetteremo le altre onde. In Tanzania sale, oltre alla curva, ai contagi, in Tanzania sale la paura globalizzata, la paura per le immagini di quello che accade lontano, sale la paura incondizionata. E la paura è peggio del virus stesso.